Nessuno la chiamava Mahsa. Quello era il suo nome persiano, che è imposto dalle autorità a tutti i curdi iraniani. Il suo vero nome era Jina. Jina Amini. Viveva a Saqqez, una città curda nell’ovest dell’Iran, non lontana dalla frontiera con l’Iraq.
Aveva 22 anni e amava cantare, danzare e viaggiare. Lavorava in un negozio di vestiti, ma progettava di studiare biologia. Per questo la famiglia Amini all’inizio di settembre del 2022 era andata a Urmia, una città nel nordovest dell’Iran, dove la ragazza si era iscritta all’università. Il primo semestre sarebbe cominciato il 23 di quel mese. Dopo una tappa a Chalus, sul mar Caspio, la famiglia era andata a Teheran a trovare alcuni parenti.
Il pomeriggio del 13 settembre, Mahsa Jina Amini ha preso la metropolitana insieme al fratello e a due cugini. Volevano visitare il ponte Tabiat, un lungo ponte pedonale che unisce due parchi della città. Una delle ultime foto che la ritrae viva mostra una ragazza sorridente, con in mano una bottiglietta di acqua, indosso un lungo abito nero e bianco e un velo nero sulla testa. Un ciuffo di capelli neri sfugge dal velo e le circonda la fronte, sfiorandole un occhio. Quando esce dalla metropolitana, Amini è arrestata dalla polizia religiosa che pattuglia le strade della capitale. È accusata di violare le rigide regole di abbigliamento, che da più di quarant’anni impongono alle donne di coprirsi i capelli in pubblico. È portata via su una camionetta bianca. Poco dopo è ricoverata in ospedale. Resta in coma per tre giorni. Il 16 settembre muore.

Comincia così la più grande sollevazione contro il potere in Iran dai tempi della rivoluzione islamica del 1979. Nei giorni e nei mesi successivi alla morte di Mahsa Jina Amini gruppi sempre più numerosi di iraniane e iraniani scendono in strada per chiedere la caduta del regime. Il rifiuto d’indossare il velo diventa un simbolo della contestazione. La autorità reagiscono con violenza: circa cinquecento persone sono uccise e almeno ventimila sono arrestate; sono eseguite le pene capitali di sette uomini accusati di essere coinvolti nelle proteste e altre decine sono condannati a morte. Con il tempo la mobilitazione s’indebolisce, le sanzioni e la crisi economica fanno sentire il loro peso, l’inverno è duro.
Il regime resta aggrappato al potere, però in Iran da allora qualcosa è cambiato.